Le alchimiche quadrature di Paolo Emilio Gironda
Giuseppe Pulina
La poesia è un'anima
che inaugura una forma
Pierre-Jean Jouve
Gaston Bachelard ha scritto che “pochi sono tra noi coloro a cui la vita ha dato la piena misura della sua cosmicità”[1].
In un'ipotetica lista – che immaginiamo incresciosamente corta – figurerebbero quanti possiedono il talento della spazialità: un'abilità, se così si può dire, dalla provenienza incerta come tutti i veri talenti, in grado di far emergere il senso mai compiuto di realtà ingannevolmente univoche. Per entrare nelle grazie di Bachelard non occorrerebbe, tuttavia, votarsi alla causa di una poco credibile estetica del sospetto; basterebbe, molto più semplicemente, rendere allo sguardo tutta la forza prospettica di cui è capace. Un po' come dirigere gli occhi al cielo per rovistarne i recessi meno visibili e scoprire, facendo venir meno tutta la cautela che uno zelante sostenitore del metodo fenomenologico come Bachelard imporrebbe, che gli apparteniamo nella misura in cui questo ci sovrasta e avvolge. Parti di un tutto al quale è impossibile sottrarsi.
Un invito ad esercitare tutta la profondità di cui siamo capaci lo troviamo nelle opere di Paolo Emilio Gironda, giovane autore di una scena artistica in costante e – visti i risultati – felice movimento. Nell'atelier di Sarzana hanno preso corpo le trenta opere di “Emozioni al quadrato”, raccolta tematica che, intelligentemente infedele (quel tanto che basta, però) a titolo e soggetti, non consacra – perché né lo vuole e né se lo propone – il primato di una particolare forma geometrica sulle altre. Il quadrato, dichiarato leitmotiv dell'intera serie, è espediente, sonda, abitacolo, oblò (oblò dalla inconsueta bordatura, s'intende) di un mondo di cui l'artista sembra voler decifrare il codice, uno dei tanti naturalmente, che ne schiuderebbero l'accesso rivelandone il senso o offrendo questo in pegno della sua rappresentazione.
La scelta di Gironda è caduta sul quadrato e non su altri enti geometrici in forza di una speciale attenzione per la presunta ordinarietà delle cose di cui si combina la realtà. Una realtà, quella del tempo nel quale viviamo, che spinge la ricerca estetica alla definizione di nuovi modelli o alla rassegnata riproposizione di vie e cliché setacciati e battuti sino all'esaurimento. Cosa che non si può proprio dire dei quadrati di Gironda o delle prime esplorazioni da apripista condotte in questo particolare campo da Albers. Rispetto a quel primo “quadratore” della circolarità che fu Josef Albers, Paolo Emilio Gironda rivela un gusto tutto suo per l'abitabilità cromatica dello spazio. Ridotto in quadrati, e mai fatto tuttavia a pezzi, porzioni o segmenti, lo spazio e nient'altro è da intendere come il vero soggetto delle sue rappresentazioni, profili in astratto di quella cosmicità che non tutti saprebbero, a quante pare, cogliere.
Torinese di nascita, Gironda deve solo le sue origini al capoluogo piemontese. Crocevia importanti della sua formazione saranno La Spezia, nella cui provincia (precisamente a Sarzana) continua a vivere e lavorare, e Firenze, dove conosce e frequenta Alfio Rapisardi, Silvio Loffredo, Marcello Aste e Antonio Tabucchi. Nato nel 1966, ha modo di entrare, verso la fine degli anni Ottanta, poco più che ventenne, in contatto con le comunità artistiche di Roma, Barcellona, Londra, New York e Lisbona. Determinante, per ammissione dello stesso Gironda, si rivelerà la conoscenza di Mario Mertz, occasione di una vera e propria svolta nel modo di intendere e praticare la propria arte, in cui si sono ormai dileguati gli ultimi residui della pittura figurativa che, dopo aver segnato gli esordi, ha ceduto il campo ad una più convincente adesione al concettualismo. Questo non degenererà mai – e l'arte povera di Mertz può aver avuto il suo peso – in forme di intellettualismo astratto e civettuolo, deriva frequente di molti percorsi artistici che si irrigidiscono pericolosamente in sentieri che diventano col tempo mal praticabili. La quasi totale assenza di titoli – costume frequente e comune a molti altri artisti – agisce come una precauzione contro la riduzione didascalica del messaggio di cui l'opera potrebbe essere vettore e contenitore. Messaggio aperto, come un senso plurimo, che si rivolge ad una varietà di osservatori. La ricercata ricorrenza del tema – il quadrato a tutti i costi – può avere i contorni di un'ossessione. E così sarebbe se, alla fine, i conti quadrassero, se, cioè, quella di Paolo Emilio Gironda fosse l'illustrazione di un unico soggetto – un soggetto che non è poi tale, si è detto – colto nella seriale ripetizione di pose che s'implicano vicendevolmente come gli anelli, tutti diversi, ma tutti legati, di una catena.
Osserviamoli, allora, i quadrati di Gironda, e teniamo conto della tecnica impiegata e delle prospettive che la loro visione schiude. Osserviamoli con quell'intensità di sguardo che l'opera d'arte autentica giustamente reclama, liberando il campo dai riferimenti più o meno colti che la loro visione potrebbe suggerire. L'impiego di una tecnica mista risponde innanzitutto all'idea che l'autore si è fatto del mondo, complesso e stratificato, oggetto della sua rappresentazione. Niente può passare inosservato, nessun indizio può dirsi innocuo e sprovvisto di senso. Tutto si riduce a simboli. Simboli che dovranno poi tradursi in elementi di un linguaggio pittorico in grado di comunicare quel che è stato raccolto e filtrato. Vale evidentemente per Gironda quel vecchio adagio esistenziale secondo il quale il mondo semina e miete, e l'artista battaglia con le stagioni della vita, per poi raccogliere quel che rimane. L'idea di questo travagliato approccio all'opera da realizzare viene suggerita dal magma di elementi (carte, veline, garze) che concorrono a dare vita alla superficie dell'immagine, in cui tempere, oli, smalti e inchiostro intervengono a più riprese per smussare, cancellare, alleggerire e rimodellare. L'effetto finale è l'emersione di un mondo nuovo in cui il quadrato figura come il rassicurante occhio geometrico di raccolte e conchiuse concavità. Occhi che scrutano in interiore homine vissuti che si offrono allo sguardo pubblico dell'esteriorità. Gironda dipinge case, finestre, porte, città, spazi architettonici familiari al nostro sentire urbano, ma se venissimo catapultati dentro i suoi dipinti, la sensazione sarebbe inevitabilmente quella di trovarsi immersi in una geografia dell'anima dominata da vortici di colore che riverberano nel bel mezzo di tracciati di linee sagomate. “Geometrie interiori e architetture emozionali”, le definirebbe, non senza ragione, il nostro autore, che al quadrato deve essersi affidato pensando anche al valore simbolico che questa figura ha sempre avuto per gli alchimisti. Il quadrato sarebbe la stessa terra e sprigionerebbe una vocazione all'immanenza che fa tutt'uno con il gioco di prospettive di cui Gironda si serve per dipingere da dentro, da fuori e dall'alto il mondo che cade sotto la sua osservazione. Il quadrato è una porta, un punto d'accesso, segna un ingresso, ma anche una possibile uscita, è un occhio magico sospeso tra due campi visivi, paralleli e alternativi. Chi osserva e contempla l'opera può scegliere da quale parte stare. E questo – sarebbe bene tenerlo presente – è un privilegio irrinunciabile.
Sarebbe poi raccomandabile effettuare la scelta provando a fare proprie le tracce che Gironda lascia dietro di sé: graffiti e frasi, trascritte come fossero semplici appunti, che fungono da mezze confessioni. I quadrati raccolgono inoltre interi paesaggi di colore, proponendosi come frame, cornici in cui lo sguardo è chiamato a riversarsi. Ancora una volta parti di un tutto – solo apparentemente anonimo – al quale è impossibile sottrarsi. E di cui la regolare compostezza del quadrato è, più che una generica e rassicurante espressione dello spazio ridotto in cifre, un invito a saltare la soglia, violare ingressi e oltrepassare confini.
Giuseppe Pulina
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[1] BACHELARD Gaston, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975, p. 118.