La fine del mondo
Atti del convegno sui saperi apocalittici contemporanei, dedicato al centenario della morte del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche.
Edizione curata da Giuseppe Pulina
Pubblicazione del Distretto Scolastico n. 3 - Tempio Pausania
Testi di José Maria Galvan, Vincenzo Vitiello, Tomaso Panu, Giuseppe Pulina, Placido Cherchi, Vincenzo Comerci.
Disegno di copertina realizzato da Valentina Cossu, intitolato "Tu uccidi un dio che è morto".
Il volume, disponibile presso l'ufficio del Distretto, contiene saggi sull'attualità dell'attesa messianica cristiana, sulle scritture di Jabés, Bernhard e Pessoa, Italo Mancini, le religioni new age e i nuovi millenarismi, l'erosione dell'eschaton nel mondo postmoderno. Per una visione più approfondita dei contenuti si rimanda all'introduzione di Giuseppe Pulina.
INTRODUZIONE
Parlare della fine del mondo non è mai stato tanto agevole. Il rischio che farne parola comporta è sempre quello di finire con l'essere presi troppo sul serio (propiziando, magari, reclutamenti in massa per una setta o “brevettandone” una che ci calzi a pennello) o con il dare ragione a chi crede che la cosa, degna della peggior razza di menagramo che abbia mai popolato il pianeta, meriti invece la piena derisione. Due spiacevoli inconvenienti nei quali può realmente capitare d'imbattersi quando si crede che la fine del mondo sia diventata oggi il tema di maggiore attualità sul quale ingaggiare un dibattito e aprire un confronto tra studiosi appartenenti a campi diversi, provando possibilmente a sottrarne l'esclusiva al cinema hollywoodiano, ai suoi divi, ai suoi sintetici scenari apocalittici. Parlare della fine del mondo può diventare allora cosa salutare, purché si eviti di cadere in una forma di cervellotico divertissement, un gioco di società tra intelletti fini per i quali il “migliore dei mondi possibili” almanaccato da Leibniz continua, a distanza di quasi tre secoli, a conservare il suo fascino di onesta teoria da combattere.
Quasi mai citato dagli studiosi che hanno preso parte al convegno, Leibniz è stato il vero riferimento polemico degli antropologi, dei filosofi e dei teologi che hanno detto la loro sullo stato di salute di cui godono oggi i cosiddetti (ma non sono poi tanti a chiamarli così) “saperi apocalittici”. Leibniz è stato il filosofo che ha tentato con geometrica finezza di conciliare l'ordine esistente con il nuovo portato di valori dell'avanzante civiltà delle macchine. Nessuno tra i relatori (in particolare, Vincenzo Vitiello, di cui non è stato possibile riprodurre il testo, ma che compare negli Atti per il contributo dato alla discussione finale del convegno) ha mostrato una qualche velata simpatia per il vecchio, ma non così decrepito, assunto leibniziano, corollario di una metafisica che, sopravvissuta anche ai colpi assestatigli da Nietzsche e Heidegger, non può dirsi più la stessa. Non per dare ragione a tutti i costi a Nietzsche e ad Heidegger, ma per raggiungere un obiettivo che poteva andare oltre i risultati teorici cui sarebbe comunque giunta la giornata di studi, si è chiarito a sufficienza (e, in questo caso, il contributo di Placido Cherchi è stato determinante) che il nostro mondo non ha più niente del ritratto oleografico firmato da Leibniz. L'odierna apocalisse non susciterebbe più attese, né alimenterebbe più nuove speranze.
Il convegno, promosso dal Liceo Classico “Dettori”, ha inoltre puntato l'indice contro l'esaurimento – per alcuni compiuto, per altri ad un passo dal “punto zero” – di quel sistema di vita, convinzioni e significati che, per usare un'espressione cara ad Italo Mancini, si potrebbe definire ethos occidentale. Un ethos malato, per curare il quale è difficile individuare il giusto farmaco. Può essere perciò, quell'ethos, la nuova condizione postmoderna nella quale è venuto a trovarsi l'uomo del nostro tempo. Condizione che determinerebbe necessariamente nuovi stili di vita, come tende a sottolineare il saggio sulle scritture apocalittiche di Pessoa, Jabès e Bernhard inserito in appendice.
Il convegno ha tratto un insieme di spunti di riflessione anche dalla ricercata coincidenza tra il 2000 e le sue incompiute attese e la ricorrenza del centenario nietzscheano. Sulla torta di buon compleanno dello zio Friedrich, come è stato familiarmente soprannominato dai liceali l'autore di Così parlò Zarathustra, i relatori hanno dovuto spegnere più di una candelina. L'idea iniziale era infatti di alimentare un confronto tra più voci sui temi dell'apocalittica nietzscheana. È, invece, diventato dell'altro, autorizzando direzioni prima non previste, del cui interesse ben testimonia la tavola rotonda che ha chiuso la sessione mattutina del convegno, durante la quale Galvan, Vitiello, Panu e Cherchi hanno dovuto dare risposta agli interrogativi degli studenti. Studenti che, in un certo senso, si erano già pronunciati grazie al cortometraggio realizzato da Mario Pischedda e Paolo Sanna, due insegnanti del “Dettori”, che, in una breve serie di spot apocalittici, hanno raccolto le impressioni di tanta gente comune e tanti giovani su una fine più o meno prossima del mondo, documentando un'infinità di rispettabili luoghi comuni e di più o meno nobili aspettative.
Occorre segnalare, in queste poche pagine introduttive, l'opera meritoria del Distretto scolastico n. 3, che, con la pubblicazione degli Atti, ha dimostrato di condividere un'idea per niente scolastica della cultura: un'idea di cui le scuole, agenzie di formazione, dovrebbero gettare e diffondere i semi in più direzioni. È veramente raro incontrare l'interesse di un ente pubblico per la pubblicazione di un lavoro come il presente, senza il quale, alla lunga, niente sarebbe sopravvissuto della giornata di studi. Forse perché, per fare un po' il verso al buon Esiodo, le opere – in questo caso, i libri – sono ciò che ci rimane per dare o trovare il senso ai giorni che avanzano. È vero o no, del resto, come ha sostenuto Heidegger, che ciò che rimane lo fondano i poeti? E che cosa ci rimane da dire ancora, se non ciò di cui, niente affatto invano, si è già fatto parola?