Il grande Libro di Marc Chagall
Giuseppe Pulina
“Non c'è un Libro sacro, ci son dei libri spalancati sul silenzio del Libro sacro. Scrivere a partire da quel silenzio vuol dire includere il Libro dell'eternità nel libro mortale delle nostre metamorfosi”[1]. Il Libro in questione, quello di cui parla Edmond Jabès, poeta e filosofo francese di origine ebraica, è la Bibbia, il Libro dei libri, la Parola fattasi lettura. Libro delle interrogazioni, delle risposte sospese e delle ossessioni. Proprio come per Marc Chagall, altro ebreo che con la Francia, terra di esili e scoperte, ebbe un rapporto di felice e vitale partecipazione, artista tra i più enigmatici e sorprendenti del Novecento. La Bibbia, in entrambi i casi, è l'origine a cui si deve fare ritorno. Altre vie, direzioni alternative non possono essere date. Perciò, quando Chagall decise di assecondare la richiesta di Ambroise Vollard, per il quale aveva già realizzato i cicli grafici delle Anime morte di Gogol' e le Favole di La Fontaine, altro non fece che cogliere l'occasione attesa e compiere ciò che in un certo senso sentiva di dover fare e non più rinviare.
Dei grandi cicli grafici che impegnano Chagall negli anni Venti e Trenta la “Bibbia” è quello che si rivelerà maggiormente complesso. Innanzitutto, per la chiara problematicità del soggetto, che richiedeva agli occhi dell'artista un accostamento se non nuovo, comunque diversamente calibrato, come dimostrerà l'esigenza manifestata al suo editore committente di visitare la Palestina e compiere per così dire un viaggio sperimentale ed esplorativo, suggellando una sorta di ritorno, tutto sentimentale, alla Terra promessa. In secondo luogo – ma non si tratta, certo, di un aspetto secondario – per il periodo durante il quale l'opera venne progettata e in gran parte realizzata: gli anni dell'ascesa di Hitler, dell'affermazione in Europa di nuovi regimi autoritari, dei venti di guerra che spiravano con fin troppa forza su un continente ancora provato dalle conseguenze del primo conflitto mondiale, dell'antisemitismo il cui riflusso sembrava essersi esaurito quando i precari equilibri del nuovo ordine mondiale vennero messi seriamente alla prova. L'identità dell'esiliato riemergerà così in Chagall con un'intensità superiore a quella che nelle ambientazioni ebraiche delle tele di Vitebsk racconterà la spiritualità chassidica, ma anche l'angoscia dei pogrom, il disprezzo della diversità marchiata e il logorante travaglio della transitorietà. In altre parole, la raccapricciante attualità di una diaspora che sembrava essere giunta alla vigilia di uno dei suoi più tragici epiloghi e che Chagall pare quasi voler redimere, convertire, esorcizzare, assegnando alla propria arte – visionaria, primitiva, inafferrabilmente plastica anche quando dalla grande tela si trasferisce sul rame di una lastra – una forte carica espiativa.
Viene perciò facile entrare nel merito delle motivazioni che indussero Chagall ad accettare ancora una volta la proposta di Vollard. Il viaggio in Egitto e Palestina, compiuto in compagnia della moglie Bella e della figlia Ida, funge quasi da rito iniziatico. Sul campo raccoglie pochi dati (pochi elementi ambientali dei paesaggi visitati confluiranno infatti nelle tavole), ma, respirando l'aria di quei luoghi, che nel “Colgota” del 1912 aveva potuto rievocare solo con l'immaginazione, ricaverà l'impronta di impressioni e suggestioni che l'orienteranno nella realizzazione del ciclo biblico. Contravvenendo forse alle attese dell'amico editore, Chagall impiegò più tempo del previsto, elaborando tutti gli studi preparatori, ma portando a termine solo sessantasei tavole. Nel 1939, con la morte di Vollard, il ciclo s'interrompe e le tavole (poco più di un terzo) vedranno la luce solo nel 1956. L'opera intrapresa da Vollard sarà così ultimata da Efstriatos Tériade con la pubblicazione in volume di 295 esemplari. L'intervallo di tempo intercorso tra i due periodi della composizione non passò, comunque, senza lasciare traccia. La stagione dei grandi cicli grafici – avvertita negli anni del secondo soggiorno parigino come un prepotente impulso estetico – si era conclusa, ma il rapporto con il Libro, “il libro accecante di Dio”[2], quello non si sarebbe mai potuto esaurire e chiudere definitivamente, come sembra voler dimostrare quel motivo ricorrente nell'universo pittorico chagalliano del rabbino che tiene stretta a sé la Torah, come se fosse – e, in realtà, per Chagall, lo era – il bene maggiore da salvare da un'incombente caduta del mondo negli inferi. Occorre però dire , a scanso di possibili equivoci, che l'ebraicità – l'essere ebreo, il sentirsi ebreo, una condizione più da paria che da eletto – dell'artista di Vitebsk non è mai stata pienamente l'espressione di un'esperienza religiosa rigidamente confessionale.
Nelle centocinque acqueforti della “Bibbia” la selezione degli episodi risponde, tuttavia, alla volontà dell'autore di aderire quanto più possibile alla sacralità del testo, individuando immagini e motivi fortemente caratterizzanti. Non sorprende perciò che il “Libro sacro” di Chagall si presenti come una rassegna di figure, stagliate sullo sfondo del grande racconto religioso, il cui eroismo (o la cui eccezionalità, se si vuole) consiste nell'essere campioni di un'umanità mitica, primordiale, che sembra voler severamente montare la guardia sul corso del tempo (il mondo e la storia ad un passo dal giudizio finale), sorda premonitrice di un futuro che la tragedia di Auschwitz ha dimostrato essere del tutto inintelligibile. Insomma, chi si accosta alla visione della “Bibbia” non può non tenere conto che negli anni della sua prima realizzazione prendeva corpo anche la “Crocifissione bianca”, un'opera visionaria (il solo motivo della croce è per un ebreo una “tentazione” difficilmente giustificabile) che coagula nel nitore dominante dei suoi colori l'intreccio turbinoso di elementi catartici (il bianco purificatore) e apocalittici (il supplizio della croce), passione e azione, effondrement ed elevazione.
Ben diverso appare, tuttavia, il risultato cui giunge Chagall nella “Bibbia”, opera sulla quale si è significativamente concentrata in misura maggiore la letteratura critica, segno che quella condotta dall'artista russo non è stata una semplice opera di illustrazione, ma qualcosa di diverso e, stando così le cose, di più rilevante. Nei volti di Mosè, Abramo, Rebecca e Giuseppe rivive il principio maritainiano che in ogni uomo sia contenuto un prodigio esclusivo e che “la personalità umana è un grande mistero metafisico”[3]. È l'umanizzazione dell'eroe, il passaggio dalla sua dimensione cosmica al piano della storia, eroe inteso come archètipo di “un'umanità millenaria”[4], che sembra conservare ancora in sé il ricordo dell'eden e che ritroviamo nella figura di Abramo che piange la morte di Sara. Qui, il padre di Isacco è soffocato dal dolore, impietrito dal peso del lutto, subìto con il pudore di chi, molto umanamente, prova vergogna a piangere in pubblico, tanto da celare il viso con una mano la cui dimensione irregolare dà la misura dello strazio vissuto. Icona di un dolore universale, verso il quale le afflizioni terrene, la cura degli affanni ordinari, sono solo esteriore, per quanto autentica e rispettabile, accidentalità, è la sofferenza che Chagall ritrae nello sguardo provato e nel volto rugoso del profeta Geremia, la cui bocca spalancata fa pensare ad un gemito trattenuto, sospeso.
È indubbiamente la lingua del grande Libro quella che profeti, patriarchi e regine della terra di Cànaan non solo parlano, ma mettono in scena nella “Bibbia” di Chagall. Eroi, si è detto, nel senso di modelli da cui verrebbe ancora a dipendere il “destino morale dell'uomo”. È da questi intramontabili “esempi di vita morale” che dovremmo, infatti, “prendere lezioni di energia destinale”[5]. Senza lasciarsi trarre in inganno dalle figure in apparenza goffe e sgraziate, da quella maladresse[6] in cui il filosofo cattolico Jacques Maritain vedeva il tratto distintivo e più originale del genio chagalliano, un nodo cruciale, punto di rottura e anche di mille labili affinità con le tante avanguardie (cubismo, suprematismo, surrealismo) che si limitò ad attraversare con poche concessioni e avari e misurati prelievi. Nella “Bibbia” è evidente l'entità del debito (parola forse eccessiva) contratto da Chagall nei riguardi di Maritain. Nei suoi studi, l'autore di “Humanisme intégral”, opera del 1936, rifletteva sul senso e sul grado d'incidenza della crisi che, già prima di Lutero, si era sviluppata all'interno del cristianesimo. Per il filosofo francese, il punto di rottura e brusca accelerazione, l'evento fondamentale è stato il Rinascimento, a partire dal quale niente, per la modernità, fu più come prima. Venne così a cambiare nel cristianesimo la prospettiva del senso della trascendenza, un vincolo tra l'uomo e Dio che, tradottosi in radicale antropocentrismo, si era totalmente sbilanciato dalla parte del primo dei due termini. Maritain teorizza così il ritorno ad un umanesimo, nuovo e aggiornato nelle sue forme, in grado di recuperare il senso di quella trascendenza così tragicamente spezzata. Di un ritorno dell'uomo a Dio parlano, a loro modo, tutte le opere di carattere religioso di Chagall, e, in particolare, quelle del ciclo biblico, in cui l'umano è la chiave che consente l'accesso al mistero del soprasensibile.
Se l'umanesimo integrale teorizzato da Maritain ha lasciato un segno non trascurabile nelle concezioni estetiche, oltre che nella più generale visione del mondo, di Chagall, il rapporto con la poesia ha prodotto risultati ancor più copiosi e consistenti. Ad alimentare la fecondità di questo rapporto furono gli stessi amici poeti frequentatori dell'atellier parigino: Apollinaire, Max Jacob, Cendrars, Eluard e altri ancora. Con molti di questi Chagall entrò in una sorta di circolo simbiotico all'interno del quale ognuno dava nella misura in cui si augurava di poter ricevere. Una sfida giocosa, più che un negozio tra parti diverse, di cui le quindici tavole dei “Vizi capitali”, pubblicate nel 1926 da Simon Kra, sono uno degli esiti più interessanti raggiunti da Chagall nei suoi tentativi sperimentali di accordare testo e immagine, secondo un percorso che dall'uno poteva ricondurre all'altra e viceversa. Le tavole dei “Vizi capitali” sono il commento grafico di alcune poesie dedicate al tema. Un gioco, si è detto, seriamente condotto con la complice disponibilità dei poeti autori delle liriche: Jean Ciraudoux, Paul Morand, Pierre Mac Orlan, André Salmon, Jacques de Lacretelle, Max Jacob e Joseph Kessel. Sette poeti per altrettanti peccati (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia), illustrati senza il compiacimento demolitore del moralista o il gusto per la derisione sarcastica e la censura sprezzante. Nelle tavole dei “Sette vizi capitali” non può esserci ombra – giusto per introdurre una nota di confronto – delle assorte, dense e fiabesche atmosfere della “Bibbia”; il tratto grafico è volutamente più sottile, quasi friabile nella sua leggerezza, e l'ironia – talento delle intelligenze che sanno intrattenere un rapporto giocoso con il mondo – mai invadente e volta alla denigrazione. In un certo senso, Chagall dà l'impressione di aver voluto capovolgere, rivoltare, i gironi dell'inferno dantesco, con le sue riconoscibili tipologie di dannati e l'infallibile e terribile sistema punitivo, alleviando la sofferenza dei reietti, di cui – si pensi all'immagine della lussuriosa accompagnata dal suo cagnolino, “bellezza” decisamente più ordinaria della Francesca da Rimini di Dante – mette a nudo le infermità dell'anima che solo l'occhio dell'artista, senza nemmeno troppo calcare la mano, sa cogliere e rappresentare.
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[1] JABÈS Edmond, Il libro della sovversione non sospetta, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 58-59
[2] JABÈS, Il libro delle interrogazioni, II, Genova, Marietti, 1988, p. 25.
[3] MARITAIN Jacques, Principes d'une politique humaniste, in Per una politica più umana, Brescia, Morcelliana, 1968, p. 11.
[4] BACHELARD Gaston, Il diritto di sognare, Bari, Dedalo, 1974, p. 18.
[5] Ivi, p. 19.
[6] “Maladresse”, “goffaggine”, termine chiave dell'estetica maritainiana che in “Art et Scholastique” (1920) ridimensiona la portata universale dei canoni della bellezza classica, rivalutando la funzione creatrice dell'artista che mai deve limitarsi a riproporre immagini speculari della realtà.