Gemellae N. 38

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  Alle Origini del Melodramma
Alle Origini del Melodramma

di Alessandro Scano


Per capire oggi il seguito e la popolarità di cui un tempo godette in Italia l'opera lirica credo sia sufficiente un aneddoto, dato che le leggende sono talvolta più veritiere della stessa realtà. Durante la lunga agonia che precedette la scomparsa di Giuseppe Verdi, avvenuta a Milano nel gennaio 1901, venne cosparso del fieno sul selciato delle strade limitrofe l'albergo di via Manzoni che lo ospitava, onde attutire il cigolio delle ruote delle carrozze e degli altri mezzi di locomozione allora usati. La fama del maestro di Busseto, all'apogeo sul finire del XIX secolo, fu continua e costante anche dopo la morte, a parte una breve pausa all'inizio del Novecento, quando fu offuscata dal nascente astro pucciniano e, almeno nel nostro paese, il melodramma assunse i contorni melensi del prediletto gusto decadente. Prevalse la discutibile mania di estrarre dal contesto originario le arie operistiche più note al grande pubblico, offrendole come pretesto per il virtuosismo degli interpreti. Il melodramma non va considerato un semplice prodotto musicale, perché soprattutto in origine era il frutto di una collaborazione assidua ed inscindibile tra un musicista e un poeta. Ad esempio "Don Giovanni e il convitato di pietra" era considerata un'opera di Lorenzo Da Ponte con musiche di Wolfgang Amadeus Mozart e, ancor prima, il compositore boemo Christoph Willibald Gluck insieme al nostro Ranieri de' Calzabigi aveva ricondotto ad un'unica dimensione espressiva il canto e la parola, il recitativo e l'aria, l'orchestra, il coro, la scenografia e la danza. Ciò perché l'opera fruisce di un codice linguistico multimediale (musica, poesia, recitazione, balletto, scenografia) nel senso che si serve di molti media, di molti linguaggi, che mutarono profondamente col tempo. E' possibile, anche se all'apparenza dissacrante, un paragone tra l'opera lirica e il fumetto, tra il melodramma e il cartone animato. In entrambi i casi infatti viene messo in scena l'impossibile perché siamo nel regno della pura fantasia, del surreale; un territorio franco in cui si può contemporaneamente amare e odiare, combattere a viso aperto o tramare oscure vendette, vivere o morire, ma sempre e solo tramite il canto. E, non a caso, questo genere musicale sorge nell'epoca barocca, quando il fine della poesia è straniare (si pensi all'opera di Giambattista Marino); il canto poi, potenziando notevolmente l'effetto della parola, le dà una marcia in più. Né va trascurato che in un paese il cui tasso di alfabetizzazione raggiunse nel 1950 quello della Germania nel 1870, ha adempiuto ad una causa meritoria, al diffondersi di una cultura nazional-popolare, in senso gramsciano. In pratica nell'Italietta che ancor oggi detiene il triste record europeo del minor numero di libri, riviste e quotidiani venduti, la musica lirica ebbe un ruolo analogo al romanzo d'appendice sopperendo alle gravi lacune di una scolarizzazione che, lungi dal diffondersi capillarmente e trasversalmente, fu viceversa patrimonio di un'esigua élite.
L'opera lirica ha una precisa data di nascita, l'ottobre del 1600 e la prima messa in scena è l'Euridice con musica di Jacopo Pei e Giulio Caccini. Si volle rappresentare il mito di Orfeo, definito da Orazio "l'interprete degli dei ed il correggitore dei costumi" ed Euridice, sua moglie, uccisa da un serpente il giorno stesso delle loro nozze. Un tema ripreso qualche anno più tardi (1607) da Claudio Monteverdi, la cui opera omonima può essere considerata la prima in cui la musica ha una funzione psicagogica, che cioè serve a placare gli animi, a guidare e rafforzare la riflessione, la concentrazione, la meditazione. Nasce a Firenze in ambiente di corte, al tramonto del Rinascimento, quando declina l'istituto della signoria e, per certi versi, può essere considerato l'ultimo grande frutto della Rinascenza. Dalla metà circa del Seicento (1640-5) il pubblico che gremirà gli spettacoli sarà però la borghesia, nel senso più stretto del termine (gli abitanti delle città). Il teatro veneziano di San Cassiano è il primo in cui l'accesso è a pagamento, il che cambia del tutto la dinamica dello spettacolo stesso, nel senso che i drammaturghi, non potendo sempre disporre di grandi risorse, traggono sostegno da impresari non puri (quel che, mutatis mutandis, accade oggi nel mondo dell'editoria). Nasce allora la figura dell'impresario teatrale e musicale che ha come unico o principale obiettivo quello di lucrare sullo spettacolo stesso. Quest'impresario non possiede necessariamente un proprio capitale, ed è per questo che il suo è un mestiere particolarmente rischioso, ricco d'incognite, il cui intento principale è coordinare l'opera di tanti professionisti; d'altro canto non va dimenticato che la messa in scena - tuttora un complesso lavoro di équipe - era anche allora un audace collage, un mosaico dai mille tasselli. Compito dell'impresario lirico è perciò valutare la disponibilità dei teatri, scritturare gli interpreti, scegliere il librettista che dovrà calibrare il testo sulle caratteristiche e capacità dei cantanti. Così pure tanti libretti, tante pièces, il plot narrativo stesso saranno condizionati dalle esigenze e dai gusti del pubblico. Anche il testo potrà essere modificato durante le prove, adattato come un abito dal sarto, addirittura stravolto in base a convenienze contingenti. Almeno in origine era dato ampio spazio all'improvvisazione ed alle capacità di adattamento di protagonisti e comprimari; alla metà del XVII secolo il melodramma diventa invece una vera industria culturale che si serve di molteplici figure professionali:
copisti, sarti, scenografi, macchinisti ed in seguito anche di tipografi, pompieri e addetti all'illuminazione, perché lo spettacolo allora non si svolgeva al buio, ma in totale libertà. Durante l'esecuzione si poteva schiamazzare, banchettare, intrecciare furtive relazioni amorose favorite dall'inusuale promiscuità, spettegolare, commentare ad alta voce e perfino deridere i cantanti. Qui il pubblico è quanto mai variegato ed assortito: in breve l'opera diventa uno spettacolo popolare, a cui accedono tutti gli strati sociali. E l'architettura dei nascenti teatri lirici, per lo più a pianta ellittica, rispecchia perfettamente le divisioni sociali esistenti: al palco reale, collocato quasi sempre di fronte al palcoscenico, seguono la prima, seconda, terza e quarta loggia e il loggione, riservato alla "plebe", a un pubblico di modeste condizioni che tuttavia sarà temuto dagli interpreti per l'imprevedibile competenza e l'acuta capacità critica. Sino a pochi anni fa, il loggione decretava ancora il successo o il fiasco delle opere in cartellone. E' solo dopo la Rivoluzione Francese che l'ordine suddetto, almeno parzialmente, si scardina. In Italia i principali teatri d'opera sorgono nel Settecento: l'Argentina a Roma nel 1732, il San Carlo a Napoli nel 1737, il Regio a Torino nel 1740, la Scala a Milano nel 1778, la Fenice a Venezia nel 1792.
L'opera lirica divenne presto molto popolare perché entrò in sintonia con i sentimenti e l'anima della gente comune e fu capace di adeguarsi al gusto e al grado culturale di chiunque. Molti spettatori, pur analfabeti, impararono a memoria interi libretti, s 'immedesimarono negli eroi, ne simularono i comportamenti. S'inserirono perciò nelle trame il pianto e il riso, il dolore e il risentimento, l'amore e l'odio, le rivalità, le belle donne, l'avventura e il rischio, tutti ingredienti di sicuro effetto per "spettacoli di cassetta" in cui, analogamente al feuilleton o al fotoromanzo, l'happy end è garanzia di successo. I veri divi del melodramma sono quindi i cantanti, spesso dei pessimi attori. Ma l'abilità canora fa passare in secondo piano questo ed altri difetti:
nell'aria da baule, pezzo forte in cui straripa il virtuosismo del tenore, del soprano e del baritono o nell'aria in vincoli, in cui il cantante entra in scena incatenato, la commozione del pubblico èmassima e le lacrime lavano anche... i tanti oltraggi a Verdi, Mozart o Puccini.
Questo mondo davvero affascinante, purtroppo ignoto a tanti, meriterebbe certo maggior spazio. Per questa ragione spero in futuro di poter dedicare qualche riga ai grandi interpreti del passato.
 Associazione Culturale Gemellae

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