Il corpo
di Pino Pomata
Ore: 20.00- È nell'aria il fumo. Nella penombra della camera, bocconi, sul letto disfatto, sta il corpo. Sulle case il sole muore di stanca malinconia, luce al neon. Più in là si staglia la luna, attonita. La gente giù dabbasso cerca un alibi di umanità spendendo tutta la tredicesima nei regali. È Natale. Buon Natale. Fra me e il corpo le pieghe del lenzuolo, deserto bianco di parole. Dalle persiane filtra la luce dei lampioni stampando le nostre figure sulla parete. Seguo con l'indice il profilo dell'ombra del corpo, come volessi imprimervi l'immagine di un'altra donna, quella che non sei. Il corpo è immobile, distante da me. Solo allungando un braccio riuscirei a toccarlo. Mi accorgo, improvvisamente, che respira. Vedo, quasi materialmente, questa linfa vitale che scivola dentro, dalla bocca socchiusa e, con la sinuosità dell'incedere d'una serpe, muove i suoi fianchi. Da bambino giocavo spesso alle ombre cinesi, era divertente. Adesso no. Non mi diverte osservare la tua ombra. Seguo il diaframma del respiro e mi accorgo del moi respiro, ne sento l'imbarazzo e mi costringo a respirare come, questa elementare funzione indipendente, dipendesse dalla mente e qualora smettessi di controllarla morirei soffocato. Mi alzo, vado alla finestra. Guardo questo giorno che mi sta morendo addosso con indifferenza. Fra me e l'esterno lo spazio tra due stecche di persiana, il mondo è una striscia.
ore: 20.30. - Il corpo mi chiama, vuole fumare. Lentamente mi avvicino al letto. Sul comodino, fra i libri e le cose di lei, cerco le sigarette. Accarezzo il corpo caldo, ambrato dall'estate, il chiaro della pelle nascosta dal buchini, le porto la sigaretta accesa alle labbra lasciandomi scivolare per terra. La schiena poggiata al letto, la nuca sul braccio di lei, gli occhi in alto, verso il soffitto, senza nulla guardare. Attesa. Il silenzio ha una sua consistenza. Avrei voglia di dirle qualcosa, qualsiasi cosa, anche banale, fingerle, ma le parole restano in me e se ne vanno, afone, col fumo. Spengo la sigaretta. Seduto sul bordo del letto mi chino sul tronco, cerco le sue labbra. Scivolo con la lingua sul collo e ne sento la delicatezza. Ha la pelle d'una bambina. Odora di buono. Le accarezzo i capelli ridandole un poco d'infanzia. Mi stendo al suo fianco. Lei tira su le coperte da terra. Si rigira bocconi, mi offre il suo dorso come se volesse esser presa nel sonno; una volta mi disse che dormiva bocconi, stringendo sotto di sé il cuscino. Con le mani le sposto i capelli, dolcemente, per non svegliarla. Lei mi guarda di profilo con occhi socchiusi, non sa quanto riesce ad essere bella in questi momenti. La bacio. Cerca la mia mano la pinge contro il suo viso, il, pollice succhiato. Sollevo i suoi fianchi, penetro in lei. I suoi occhi sono bagnati, sento il corpo irrigidirsi, ferito, poi la bocca si schiude, il corpo si rilascia, il piacere è sulla pelle. "A che pensi?". S'è girata, supina, s'avvinghia al mio corpo, mi fa quasi male, ma restiamo soli, isolati, privati, nella corsa all'orgasmo. Una lacrima le scorre sul viso, la bevo, salata. Stiamo uno sull'altra stanchi, sudati, amanti e già meravigliati di questo nostro contatto. I corpi si slacciano, si stendono allontanandosi. Ti alzi, vai allo specchio. Hai il viso sfatto, ti trucchi. Ci vestiamo in silenzio, guardo i tuoi movimenti lenti, misurati anche nel privato, da prima donna, sempre. Usciamo. Rimane sui vetri appannati, sospeso, il tuo nome scritto col dito.
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