Appuntamento sul Rio Gentile
di Stefano Sterbini
Quel giorno avevo un appuntamento con la morte ma non mi presentai. Non credo che si sia offesa, avrà trovato qualcun altro con cui parlare di sé e del suo mestiere. Lei non aveva bisogno di ripetermi cose che già sapevo. Sono uno come tanti, sono cresciuto con l'idea che il lavoro della morte sia di mettere a dormire le persone troppo stanche. Non c'è nulla di male in tutto questo, lo faceva anche mia madre quando, da bambino, al calar della sera, rientravo a casa con le mani sporche di terra e le tasche piene di biglie. Quel giorno la morte mi aspettava sul ponticello tracciato ad arco sul Rio Gentile ma non le andai incontro; eppure, fui io a chiamarla la sera prima. Avevo la netta sensazione di tradirla ma, comunque, non la volli vedere. La immaginavo consumare nervosamente l'ennesima sigaretta mentre il fumo la chiudeva in una cornice che le donava la sbiadita bellezza di un quadro antico. Quel giorno era destinato a me e lei avrebbe atteso ancora, per molto tempo ancora. Uccisi un fiore per poterglielo offrire. Per un attimo mi accorsi che le stavo rubando il mestiere. No, doveva essere solo lei la Regina e, così, gettai il fiore in mare sperando che l'acqua gli restituisse la vita. Lo vidi sparire tra le onde e con lui il folle desiderio d'incontrare lei. Cominciò a piovere. Lei non aveva riparo e nell'aria, ben presto, si sarebbe sparso un intenso odore di capelli bagnati. La sigaretta si sarebbe spenta e i suoi occhi, anche. In silenzio deglutivo quel bolo di dolore. Pensavo a lei e al fiore reciso. Avevo timore di avere violato un mistero, avevo paura di essere diventato come lei. Il fiore non avrebbe riavuto indietro la sua vita e io lo sapevo. Il mondo non avrebbe mai accettato la nascita di un'altra morte e lei mi avrebbe odiato per l'eternità. Non l'avrei più rivista neanche quando la stanchezza sarebbe completamente straripata dalla bocca fino a farmi desiderare di cullare il mio sonno in lei. La immaginavo raccogliersi nel mantello per proteggersi dal freddo di una solitudine alla quale, pensavo io, non era abituata. I biondi capelli erano intrisi d'angoscia e quel pallido volto la rendeva simile a una bambola in porcellana. Me la figuravo così mentre il mare si portava via il fiore assassinato. Quanto ancora mi avrebbe aspettato? Io non le sarei mai andato incontro. L'acqua mi scivolava sulla pelle. Lei avrebbe gettato un ultimo disperato sguardo al viottolo che conduceva al ponticello ma io non riuscivo a volare così lontano. La pioggia appesantiva le ali. Ripensai al fiore e al tragico destino che io stesso gli avevo disegnato. Lei avrebbe inforcato la bicicletta e sarebbe tornata al lavoro d'ogni giorno. L'acqua che scendeva abbondante avrebbe messo in pericolo la sicurezza dei freni e lei sarebbe caduta sull'asfalto con lo stesso silenzioso rumore di quel fiore precipitato in mare. Il suo respiro l'avrebbe lasciata per sempre e io sarei stata l'unica e sola morte possibile. Il fiore assassinato m'indicava il nuovo sentiero. Mi ritrassi con disgusto dall'idea e la pensai al sicuro nella sua casa di Recco. Decisi che sarei fuggito da lei e dal piccolo fiore ammazzato. Il treno, pigramente adagiato sui binari della stazione di Camogli, attendeva il mio arrivo. Mi affrettai. Il capostazione diede il segnale di partenza. Tutte le porte si chiusero. Non riuscivo a staccare gli occhi dal mare. Lo stridere delle ruote m'inchiodò al sedile. Viaggiai per sette lunghissime ore senza mangiare e senza nulla dire. Superata l'ultima galleria sorrisi di bruciante meraviglia . Mai avrei pensato che, in un polveroso teatro di paese, avrei ritrovato quel piccolo fiore, bagnato di sale, addormentato tra le ciocche di lunghi capelli ramati.
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