Gemellae N. 40



 
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Pure Morning

di Giuseppe Mureddu

Ascoltavo i Placebo e mettevo sempre lo smalto nero alle mani, mi guardavano come un alieno.
La cassiera del market fissava le scatole che scorrevano sul nastro poi le mie mani e poi me. Mi guardava dal basso senza dire niente. Ero triste. Triste e arrabbiato. Io volevo solamente essere Brian Molko nel video di Pure Morning, a piedi nudi sul davanzale di una finestra spalancata, in bilico tra la stanza e il vuoto di dieci piani sotto di lui. Volevo una folla di persone sotto la finestra a guardarmi con i nasi all'insù e lo sguardo preoccupato. Volevo solamente un po' di attenzione da parte del mondo, un po' di cura tutta per me. Mi amate? Avrei voluto urlare da quella finestra spalancata, con le braccia aperte come ali e lo sguardo perso nel vuoto. Avrei voluto volare giù verso quelle braccia protese come rami, verso quelle mani che dovevano solo stringermi e fermarmi nella caduta. Era solo un po' di amore del mondo quello che cercavo, solo un po' di amore del mondo, niente di più.
Alessandro aveva appena finito il liceo e aveva deciso di partire subito a Milano per iscriversi al conservatorio, per cercare casa e sparire lontano da qui. Fuggire da questi muri stretti, da questo amore troppo forte. Da questo accento così marcato che vuole esprimere appartenenza ma che alla lunga diventa una gabbia, una prigione oppressiva da buttare giù a spallate, da vincere con l'indifferenza.
Alessandro aveva sempre le idee più chiare di me, aveva il coraggio di farle esplodere in mille pezzi le cose che non riusciva a cambiare, anziché sfinirsi di parole inutili su quanto è noiosa e vuota la vita in piccolo posto e quanto sarebbe bello cambiarla.
"E allora cambiala. Cosa stai aspettando?"
"Eh sì, parlare è sempre facile però…"
"Io me ne vado, tu fai come ti pare. Rimani qui?"
Ma io le idee chiare non ce le avevo e neanche le palle per buttare via una vita di merda e scambiarla con niente, con qualcosa che doveva ancora venire e non si sapeva cosa sarebbe stato.
Alessandro è partito una settimana dopo e quell'estate era ancora più calda e noiosa di quanto avevo immaginato. La piazza del paese deserta sotto il sole, la polvere del pomeriggio e l'assenza di qualsiasi prospettiva, di quando non hai niente da fare e ti manca persino l'euforia gratuita di chi ha tutta la vita davanti e può decidere davvero cosa farne. Niente. Il vuoto assoluto.
E allora ho cominciato a lavorare per riempire i giorni di quell'estate di noia. Prima a sollevare mattoni e sacchi di cemento, ad andare su e giù con la carriola davanti al cortile del bar, davanti alle sedie di plastica bianche e piene di sole. Oppure a riempire la betoniera con la pala, sabbia acqua cemento ghiaia sabbia acqua cemento… Ma era troppo faticoso, faceva troppo caldo io e non avevo voglia di sorridere sempre alle stesse sciocchezze, per gli orecchini che portavo o per le mani da studente che si vede che è la prima volta che lo fai questo mestiere. E via a sorridere tutti, che per un po' è anche divertente questa cosa, ma poi basta. E allora ho iniziato a fare la vedetta antincendio, ma lì era la noia a non finire più, a morirmi in gola. Mi annegavo gli occhi di quell'orizzonte gigante e dei campi tutti gialli davanti a me. Il Gennargentu sempre immobile e io che non potevo farci assolutamente niente. E allora me ne stavo lì per ore, seduto sulle pietre dietro il cortile della chiesa, in quel luogo così alto, sopra i tetti e le antenne delle case. E pensavo. Pensavo in modo così profondo che tutto intorno a me scompariva, il giallo dei campi, quelle nuvole grasse e bianche d'estate, quell'ovatta sospesa sul Gennargentu e sopra di me.
Iliade, mia stagione. Questo scrivevo, ingenuo come chi non sa che qualcun altro prima di lui ha provato e visto tutto quello che c'è da vedere, ha sperimentato prima di lui il dolore del mondo.
Anna sorrideva a quelle parole. Lei era stata la scoperta di una ragione, la presenza di un significato che teneva in piedi un'estate fatta di niente. Iliade, mia stagione, mio braccio stanco, le mie giornate.
A settembre la prima pioggia significava che potevo anche smetterla di starmene con lo sguardo fisso nel vuoto per tutto il pomeriggio. La stagione degli incendi era già finita e non c'era più bisogno che mi prendessi la briga di salire ancora nel cortile dietro la chiesa, ché tanto ce l'avrebbero fatta benissimo anche senza di me e non dovevo più sforzarmi per salvare il mondo.
Allora con i soldi che avevo messo da parte quell'estate io e Anna abbiamo deciso di andarcene via. Abbiamo fatto i bagagli, comprato due biglietti per la nave e una cartina dell'Europa. Siamo partiti in Portogallo, senza neanche la vaga idea di dove fosse il Portogallo o di che cosa fosse la vita lontano da qui.
Siamo partiti un pomeriggio di fine settembre, io ascoltavo i Placebo e avevo le unghie dipinte di nero, come a dire che stavo per volare fuori dalla stanza nella quale ero rimasto rinchiuso fino ad allora. Come a dire che ero sospeso su un davanzale a dieci piani d'altezza e mi aspettavo che tutte quelle mani protese come rami e tutti quegli occhi che guardavano verso di me fermassero la mia caduta. Guardavo giù e mi aspettavo che il mondo mi abbracciasse, che si prendesse cura di me.
Amatemi, dicevo. Sto per venire giù e mi aspetto che ci siate voi ad abbracciarmi. Aspetto le vostre mani protese come rami.

Amatemi.
Amatemi.






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