La Straniera
di Giulio Cossu
Fui io a scoprirli, forse perché mi alzavo molto presto, prima degli altri, anche di Giovanni, il pastore che mi ospitava, e di Filippo, il figlio pescatore. Volevo tutti i giorni godermi l'incanto del mare e della spiaggia non contaminati ancora dalla luce violenta del giorno maturo, vaghi e morbidi nell'incertezza crepuscolare. Il sole sorgente mi sorprendeva quasi sempre sulla scogliera, dove parevano ritrarsi, per sciogliersi nella salsedine, le ultime ombre della notte estiva. Bastava poi l'arrivo dei pochi bagnanti della spiaggia remota, gente del posto, per rompere l'incanto di quell'abbandono, per segnare già un confine tra la realtà e quella atmosfera di innocenza assoluta.
I segni delle ruote, con le impronte parallele e sibilline delle gomme, segnavano il sentiero sconnesso che partiva dalla strada vicinale, scendevano fino agli ultimi cespugli sul terreno duro, fino alla prima sabbia. L'automobile era evidentemente là, all'ombra dei ginepri nani e delle temerici azzurrognole. Ma più mi interessavano le orme umane che apparivano sulla battigia. Una dietro l'altra si inseguivano prima sull'asciutto, deformate dal vento, poco chiare. Poi, sull'arenile bagnato, diventavano precise, fedeli, nitide: orme di un piede piccolo, armonioso, di donna, leggere e svelte come quelle di un felino sconosciuto. La luce dava i primi segni della quotidiana vittoria, ma io potevo seguirle e le seguivo armonizzando in me la risonanza di mistero che la macchina, così inconsueta in quei paraggi che io avevo scelto perché sempre semideserti, e più esse, le orme, producevano nel mio spirito ricreato dalla vita semplice, senza varianti, dello stazzo sul mare. Portavano a un capanno abbandonato, un tempo un piccolo rustico ripostiglio per attrezzi di pescatori, ma ora inutilizzato, in fondo, prima della scogliera, dove l'onda cominciava a lottare con le rocce alte e spinose e si infrangeva facendo sentire come un lamento, un sussurro che però talvolta sembrava di preghiera. Intorno alla casetta, chiusa da una porta malferma tenuta all'esterno a un grosso chiodo da un consunto canapo di sparto, cespugli di giunchi aridi e riversi e legni bianchi, slavati dagli sciabordi, consunti come frammenti di scheletri. Poi rocciame liscio, frammisto a conchiglie, stelle marine morte leggermente putrescenti, irti gusci di ricci, valve azzurrine di cozze. Esitavo. Per uno di quei momenti di sospensione in cui mi intratteneva l'incanto del mare. Il sole stava per sorgere e il silenzio moriva, a poco a poco, con le prime voci degli animali dell'ovile, con l'abbaio dei cani, col canto a lunghe intermittenze dei galli. Io lo sapevo che la porta del capanno era fragile e non poteva essere chiusa dal di dentro. Era quasi corrosa dalla salsedine. Bastava svolgere il canapo dal suo chiodo e spingere appena: avrei visto subito, scoperto subito di che si trattava. Ma e se fossi stato giudicato inopportuno? Se fossi stato respinto come un intruso, magari con una scenata spiacevole? Era meglio aspettare, affidarsi a un incontro casuale. Magari procurarlo ad arte. Le occasioni non sarebbero mancate, durante quel giorno o nei giorni successivi. Ma la macchina poteva ripartire subito. Chi sa? Aspettare era meglio, tanto più che Filippo mi chiamava, sulla barca. Tirava la piccola ancora per salpare, come tutte le mattine, per la pesca mattutina. "Ohé, Filippo!…Vengo…" Lo raggiungevo seguendo la cresta ricamata dell'onda sulla battigia. Aveva già in mano i remi, pronti gli ami e le traine. Il solito coltello arrugginito era sul fondo della piccola carena. "Mi è parso di vedere una macchina, là, tra le temerici…" "Sì, Filippo, anch'io l'ho vista." "Ci sono indumenti stesi di donna. Dev'essere una straniera…" Gli occhi gli si accendevano, i muscoli che il remo impegnava sembravano più tesi, il collo più turgido e più bronzeo. "Sì, sarà qualche turista amante della solitudine. Dicevo, cominciando a svolgere gli spaghi degli ami. Lui vogava come sempre, ritmico, abile, uguale. Ma insolitamente sorrideva, mi sembrava più gentile e più in forma. Poi non accennammo affatto, durante la pesca, alla straniera. Filippo sapeva che amavo poco parlare. Mi ammirava un po' e per questo si metteva con me un po' in soggezione. Intanto qualche pesce abboccava e finiva nel cestello. Ma ecco egli spingeva nuovamente, un po' prima del solito, la barca verso la riva. La straniera era là, davanti al capanno di cui evidentemente si era impossessata. Alta, bionda, non bella ma interessante. Pareva assorta nell'osservare i merletti mobili delle spume e dell'acqua che il venticello spingeva verso la scogliera. E sempre orme erano visibili sulla sabbia, davanti alla porta. Andavano, venivano. Era evidente che lei aveva trasportato dalla macchina quando le occorreva per un soggiorno breve o lungo che fosse. Io conosco un po' d'inglese…Pensavo, mentre lasciavamo la barca. Filippo magari è più aitante di me, ma è rozzo, ignorante. Si accendeva in me debolmente la speranza di una conquista, ma anche il dubbio che la giovane donna poteva anche essere non straniera. Però i suoi capelli biondi poi me lo confermavano e più la constatazione che la targa della macchina era estera, incomprensibile e sconosciuta, senza numeri, con segni indecifrabili. Mi feci comunque ardito e la avvicinai. Balbettai frasi nel mio inglese malsicuro. Feci una mimica di gesti gentili, dimostrando che potevo anche esserle utile in qualche cosa. Ella tuttavia sembrava non capire nessuna parola, né accogliere nessun richiamo. Mi guardava assorta e diffidente, con due occhi che pareva riflettessero l'azzurro più limpido del mare, ma smarriti, lontani più che indifferenti assenti. In quello sguardo mi pareva di leggere anche un rimprovero (ma era sempre un'interpretazione arbitraria): se sei venuto qui in questa marina selvaggia e remota per amore della solitudine, perché vuoi metterti in comunicazione con me? Vedi che anch'io amo la solitudine assoluta: non sarei venuta qui altrimenti….Le avventure a cui tu pensi saprei dove cercarle… Eppure, nei giorni successivi, non disarmavo. Quella che in un primo momento mi era sembrata solo apparenza piacevole, ora mi sembrava bellezza, la più luminosa che avessi conosciuto. Mi pareva che avrei potuto amare quella donna, chiederle di restare con me per sempre. Così le stavo spesso intorno, le portavo acqua dalla cisterna, pesci, frutti di mare, che lei non respingeva, ma accettava senza mai neanche un sorriso. I giorni passavano e io sempre più mi convincevo, ora, che fosse malata e muta. Accettava solo quanto le era strettamente utile, ma sapeva tenerci a distanza, me e soprattutto Filippo che la corteggiava con i suoi modi volgari e sbrigativi. Deluso, Filippo bestemmiava, ne parlava con gli altri bagnanti e coi pastori riservati dei dintorni, raccontava del comportamento strano della forestiera. "Deve essere proprio ammalata…" andava ripetendo, anche a casa, anche al padre Giovanni, che, sempre stanco per le cure quotidiane della roba e dello stazzo, non pareva dare tanto peso alla cosa. "Una straniera?…Sarà una di quelle!…" E parlava d'altro, come seccato.
Così finché un giorno non trovai il capanno deserto. L'estate volgeva ormai al declino e il primo mattino si faceva sempre più freddo. L'acqua cominciava ad assumere le grigie e minacciose venature autunnali. Anch'io sarei partito tra poco. E fui sempre io a scoprire le orme della straniera fuggitiva. Era scomparsa col mistero che l'aveva sempre circondata, col suo mutismo che sembrava falso, quasi uno snobismo. Le orme (pareva che quelle degli altri fossero state livellate dal vento) partivano dal capanno e una dietro l'altra si inseguivano prima sul bagnato, precise, fedeli, nitide, poi sulla sabbia asciutta, poco chiare, quasi già deformi. Raggiungevano i cespugli a fianco dei quali era stata a lungo la macchina, pareva che volessero salvare la soluzione di continuità con i segni in partenza delle ruote, che erano ancora visibili, come per l'arrivo, sul sentiero. Capii quando per l'ultima volta uscii con Filippo per la pesca. Seduto dentro la barca e ripiegato in me stesso, tenevo gli occhi chiusi e una potenza sconosciuta spingeva ora la mia attenzione verso gli impalpabili confini della mia anima. Le orme della straniera si riproducevano, continuavano ad apparire ora là, nel limite crepuscolare dove muore l'onda perenne del grande mistero della vita. Anche là ognuno di noi trova una straniera che non riesce mai né ad afferrare né a conoscere, per quanto si sforzi di farla sua, un fantasma che ci sfugge e che invano cerchiamo di seguire: la sfinge affascinante, ma muta e straniera della nostra esistenza.
Illustrazione di Gavino Ganau
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