La seconda volta
di Tommaso Chimenti
La seconda volta che ti vidi avevi occhi di rame e mille sogni tra i capelli ancora neri e pensavi "amore, amore, amore", i pantaloni larghi, la cintura di spago a tenere su i tuoi anni deboli e le tue ossa solide, un fiume in piena di voglia di futuro, di dimenticare il passato triste, di voltare pagine pesanti, credere in quelle piccole unghie da scalfire pioggia sempiterne di ruggine e petrolio, tutto tuo, di getto, un salto indietro, una capriola nell'universo ero, un punto solo di un discorso appena cominciato, un quadro afono senza colori, ancora da fare, caldo come un sorriso, divenire paglia o ago, solo intorno a promesse, nato da una consuetudine rivestita di morale animalesca replicante, come anello a circolo chiuso, che stringe mani e catene di cuore e fegato e viscere, patto di sangue su asfalto infarinato di dubbi rosolati al sole tenero degli anni '70.
La seconda volta era una chiesa, la casa sgombra da smantellamenti, libera da appelli e orpelli, cappelli a far da ombra a libere interpretazioni dei testi, mani che sudate toccano e strusciano l'obolo liquido intorno al rancido discobolo, striscia la cupidigia del suono biblico, dell'acuto sibilo di un urlo scoppiettante blasfemo, tu alto dall'alto dei cieli, modello senza vie di fuga, aspettative a grappoli, fame di perfezione riversata a secchiate tra invitati affettati e fretta dimentica, tra mura rivestite impellicciate e dita di trine da concerto classico, tintinnii di campane docili e orazioni da grande evento, eri, stavo, fermo dentro un pianto lungo un'adolescenza tranquilla di no e si deviati da umori impercettibili come lampi di tuono e tuorli d'uovo, struzzo che corre nella savana del suo recinto, ansante.
La seconda volta era una lettera scritta male a mano nella confusione dell'eco dei silenzi che ostruivano la miscela vitale, le arterie rosse di vergogna e morsi nella bocca, dove eri? Lontano nei chilometri in parabrezza affilati di critiche e malumori, nel traffico sporco dell'anima, nella costrizione dell'avere di questo strano modo d'essere, un piano scordato tra fari di stanchezza, mi pensavi?
La seconda volta ero piegato su me stesso con i colori dell'autunno sulle spalle e suoni che fumavano intorno vagheggianti verdeggianti di oltre, di fuori, di altro, di diverso, di alternativa possibile, di aria fresca, di assiomi ribaltati, di regole zero, di cardini derisi, di fulcri depressi, di moine variopinte nell'universo bestiale umano, di contorni senza piatti forti, di cornici insolute, di ritagli di giornale e fatica subliminale; raccontavo me, ti dicevo dove ero e ti chiedevo una mano per andare dove non credevo si potesse: la felicità.
La seconda volta furono esperienze e tradimenti, pensieri impuri ed azioni che lo furono meno, prepotenti ma senza potenza, avrei voluto consigli svuotati di significato e non ordini, parole e non imposizioni precise, misura statica e contegno statuario invece di palpabile sdegno mostrato con tracotante rabbia, cotanta delusione e costante privazione, riprovevole antipasto del futuro nelle quattro stanze chiamate anima.
La seconda volta era il riassunto della prima, era corpo e possibilità, era ciò che sarebbe stato, liquido e ansioso, duro e fluido, gioioso e tristemente impaurito, contento, esilarante popolano e popolare con i dubbi messi in piazza, con la rabbia incasellata in lastre lucide di parquet vivace e marcio all'interno, sprizzi d'urla e sprazzi di viltà a difendere contorto l'orto nascosto nel bosco di mosto, dove affondare era legittimo, rialzarsi impercettibile.
La seconda volta aveva il sapore del terremoto, della polvere che impedisce la visuale, del mare ascorbico, tenero impaurito, dell'onda bambina che muore infrangendosi ancora e sempre su scogli troppo appuntiti, angoli scalfiti da mani contratte nell'atto di punire la natura per lo sgarbo subito d'essere uomo e non roccia marina, era sguardo che si caracollava tra marciapiedi morbidi di cous cous e pappa al pomodoro e divieti di sosta granitici per non farmi entrare nella Z.T.L. del tuo cuore.
La seconda volta era un orologio per contare gli infiniti minuti che ci dividevano, ci separavano in contrasto, lancette che scheggiavano l'assurdo del ricongiungersi, il fiato sul collo, mai bacio, il rincorrersi non per prendersi ma per scappare l'un l'altro da metodi troppo dissimili, da mani senza calore, da sorrisi manageriali, da etichette sopra merce avariata, contraffatta: io non ero così.
La seconda volta era una ri-ma senz'anima, senza riflesso nell'ombra d'ingorgo, era un pamphlet senz'armonia né sostanza gravitazionale, ed era grave udire rumori di tomba e orco e catene giù dalla discarica dei vivi salire colpendo ferite di un tempo, tenaglie per molari amorali, dentisti di noi stessi, tu, io ed il resto a far da belle statuine ingessate, registrate, inchiodate al filo sospeso cangiante tra la porpora del pianto ed il giallo dello sconnesso viso.
La seconda volta credevo, stavo ancora credendo, decimato nei sogni fanciulli estivi che a settembre induriscono come funghi velenosi nel sottobosco della vita; credevo e bestemmiavo, credevo e rinnegavo, credevo ed ansimavo, credevo e ripensavo, credevo e sanguinavo, mani trafitte, testa corrugata, piedi di piaghe, occhi incensati, braccia di lattuga, peli superflui e bla bla bla di stimmate a percussione ritmica, la base, l'altezza recondita, il,patio dei miei anni incivili, dicevi, astratti, senza posa, soap soft e candeline di buon anniversario marmoreo.
La seconda volta ero cieco ed avevo bisogno di mani a guidarmi tra scossoni e cunette ed elenchi telefonici troppo colorati e stanchi grigio pallidi d'inchiostro incensato arrogante periferico, sussurravo numeri ed erano soltanto perifrasi di parentesi di graffi astiosi come porti senz'imbarco, autoritratti di banchine e giostre scalcinate, rovinate dalla pioggia schivata a tastoni come lettere bianche sparse su fogli candidi di sillabe di neve corrotte da rugiada e liquido amniotico.
La seconda volta avevo un cappello e molti capelli dentro a nido d'ape arruffato scapigliato movimento circolare delle mani incastonate tra quei fili d'impazienza del crescere e voglia di corsa tra file di auto incolonnate verticalmente oblique a noi stretti nel sangue di un corteo isolato di due protagonisti fugaci in continua lotta nel dimostrarsi l'amore che non riuscivano a dimostrare, orpello d'orlo abbellito da "grazie" svenduti al miglior offerente, critico e vile come un abbraccio freddo di quelli che sai tu.
La seconda volta era estate ed i tuffi li facevamo dal molo, dalla riva di urla e schiaffi dell'acqua che ci segnava vivi, che insegnava la linea tra il respiro e la bolla d'aria, l'embolia dell'emozione nel ritrovarsi finalmente pesce, tonno di tonnara, seppia infreddolita nel buco del mondo, crostaceo di spighe indefesso; l'onda che prendeva tempo, assaporarla in visione mal ridotta, impostare l'apertura alare come albatross pennuto a picco indagato di complotto nel volteggio dell'aureola stagliatasi fetente tra la cozza colta in flagranza di reato nell'avvinghiarsi e la roccia punibile di scarsa solidarietà.
La seconda volta era un campo di calcio, uno stadio semi gremito, mezzo vuoto, quasi deserto, la tribuna in cemento, l'erba, il campo, il livore livido e parastinchi che non potevano non fermare il freddo, la distanza inavvicinabile tra noi, divisi da una rete di recinzione quasi a sottolineare la cattedra, il gradino, la prosopopea, il cratere, la frattura, tra il figlio ed il numero sette, teso quando correvo scoordinato sotto le gradinate assiepate, timido riflesso nel guardare di traverso con la coda dell'occhio e capire, forse, mai, i tuoi movimenti oculari, dove sarebbe caduto il pensiero del momento, le parole del dopo, il tragitto in macchina, sperando vittoria.
La seconda volta fu una scuola dove erano tutti soli, senz'anima, con lo sguardo spento dall'elevata retta di fine mese, con la violenza del potere, la furbizia, la scaltrezza dell'arrivare, del primeggiare senza meriti, senza dote umana alcuna, senza memoria né rispetto; anch'io infangato, animale da passeggio trovai speranze e giustificazioni all'odio e canali e chiavi di volta, di lettura, compiacenze e Lucignoli pronti ad accogliermi, pronti a scaraventarmi dal carro in velocità verso la maggiore età, le divisioni sociali, il saluto negato, il disprezzo dell'altro.
La seconda volta si travestì da ospedale e medico e infermiere e stetoscopio e paziente e inserviente ed addetto e volontario e tachicardia e bisturi, incudine e ferite lacero contuse, una caramella, la felicità dei quattro anni e la gola stretta che lotta con un piloro troppo solerte e ligio ed ignaro della distrazione fatale, risuscitandomi, io serpe in seno.
La seconda volta fu la prima, quel giorno di luglio, un letto sudato, coperte e conchiglie, sogni di fanghi e lavoro ancora da studiare, le finestre spalancate urlarono nascoste e fatiscenti con delizia divina e disordinato piacere, mosse commosse, atti e gesti pronti all'uso, la memoria stanca nella stanza, lui, lei, io, domani.
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